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Approdato a una tarda, linguacciuta, rissosa età, Barney Panofsky
impugna la penna per difendersi dall’accusa di omicidio, e da altre
calunnie non meno incresciose diffuse dal suo arcinemico Terry McIver.
Così, fra quattro dita di whisky e una boccata di Montecristo, Barney
ripercorre la vita allegramente dissipata e profondamente scorretta che dal
quartiere ebraico di Montreal lo ha portato nella Parigi dei primi anni
Cinquanta (con l’idea di assumere il ruolo di «scrittore americano a
Parigi»), e poi di nuovo in Canada, a trasformare le idee rastrellate nella
giovinezza in sitcom tanto popolari quanto redditizie, grazie anche a
una società di produzione che si chiama opportunamente Totally Unnecessary
Productions.
Barney ci parla delle sue tre mogli – una poetessa
esistenzialista, una miliardaria dai robusti appetiti e dalla chiacchiera
irrefrenabile, e Miriam, l’adorata Miriam, che lo ha appena lasciato.
Ci racconta le sue passioni, come chiosare i quotidiani, o ascoltare
nella notte Miriam alla radio.
Ci descrive i suoi intrattenimenti, come immaginare Terry McIver che si
dibatte in un mare infestato di squali, o lanciare galosce verso
l’attaccante della sua squadra di hockey che ha appena sbagliato un gol.
Ci aggiorna sulle sue ubbie (non ricordare i nomi dei sette nani) e sui
rimedi che escogita (domandarli a un figlio dall’altra parte del mondo,
incurante della differenza di fuso).
E ci chiede di partecipare alle sue consolazioni, accompagnandolo a
deporre sulla tomba del padre, anziché il sassolino rituale, un sottaceto e
un tramezzino al pastrami.
Questo è Barney Panofsky, personaggio fuori misura, insofferente di tutto
ciò che ottunde la vita.
E questa è una delle storie più divertenti che ci
siano state raccontate da molto tempo
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