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Per una volta non ci sono dubbi: Béla,
l’indimenticabile protagonista di questo romanzo, ha molti dei tratti
che fecero di János Székely quello straordinario personaggio che fu. Uno
che, nato povero in Ungheria all’alba del Novecento, riuscì (al pari
di celebri conterranei come il produttore Alexander Korda, il regista George
Cukor, gli attori Bela Lugosi e Zsa Zsa Gabor) ad arrivare a Hollywood, dove
diventò un brillante soggettista e sceneggiatore, e vinse perfino un
Oscar nel 1941.
Tentazione, pubblicato in inglese nel 1946 sotto pseudonimo, è
stato definito dai critici americani «a mix of Charles Dickens and Vicki
Baum»: come dire, un po’ Oliver Twist, un po’ Grand Hotel.
In realtà, tutto quello che potrebbe esserci di patetico nell’infanzia
del piccolo Béla, abbandonato dalla madre nelle grinfie di un’orribile
virago, è costantemente contraddetto dal tono del narratore, la cui
ironia non viene meno neanche nei momenti più difficili. E quando infine,
a quattordici anni, Béla raggiungerà la madre, anche sopravvivere nella
Budapest degli anni Venti, e poi degli anni Trenta, si rivelerà un’impresa
quasi disperata.
Tanto più che dovrà continuamente barcamenarsi fra due mondi agli
antipodi l’uno dall’altro: l’insanabile miseria del quartiere in
cui abita e il lusso sfrenato, sfavillante di luci, del grande albergo in
cui riesce a trovar lavoro. Nell’uno e nell’altro Béla incrocerà,
in una vertiginosa girandola di storie, uomini e donne che della vita gli
riveleranno gli aspetti più sconcertanti e scabrosi, e conoscerà la
tenerezza e la passione, l’amicizia e la generosità –
l’abiezione e il tradimento, la caduta e il riscatto.
Ma poiché il maestro del villaggio gli ha raccontato
un giorno che «Dio ha nascosto in giro per il mondo la felicità degli
uomini come si usa fare a Pasqua con le uova colorate», lui, quella parte
di felicità che gli spetta, non smetterà mai di cercarla con tutta la sua
energia, il suo ottimismo, la sua inesauribile inventiva.
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