Il mio cibo sono
le parole
ma l'anima mia si pasce di silenzi.
È questo il verso che chiude o,
meglio, riapre "Lettere scomposte" di Annarita Capraro;
lo riapre cogliendo ciò che si cela, traspare, affiora, per poi ancora
celarsi e riapparire nelle sue poesie: il "non detto", il
"lasciato vago" nella sua cristallina purezza che giunge come noto
al cuore, la mano che accompagna nel sogno quando nella veglia l'equilibrio
è perso.
È l'inquietudine dell'uomo che ascolta, che guarda, che odora la vita
lasciandosi stupire, gioire, ferire; che ama la vita e il segreto che la
anima, ma che non si nasconde il dubbio.
È quel bisogno di pace, di serenità, desiderando che il vento non si freni
e che continui a scomporre i pensieri.
È la paura del dolore, accogliendolo poi con infinita tenerezza come
conseguenza naturale della propria amata sensibilità.
È l'orizzonte tra cielo e mare.
È la parola che gronda e pulsa, tesse, dimentica, inaridisce e
germoglia nuovamente
con fatica, come grido soffocato, come nuovo Amore.
È il suono che riannoda i fili della memoria e quindi i luoghi e il tempo.
È la coperta di foglie dell'autunno, così cara ad Annarita, che indora di
tepore
sere stanche e trepida attesa.
Pier Luigi Svaluto-Moreolo
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