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Chiodo

DE BEI CARLO

Chiodo

ANORDEST

Nella poesia di Carlo De Bei si rintraccia una eco lontana e desueta di Garcìa Lorca. Non mancano le belle immagini che balzano inquiete e inaspettate, mosse da spinte di narrativa ondeggiante, una specie di ron ron che non è noia. 
La raccolta “Chiodo” ha una sua peculiare musicalità, che si contraddistingue per una corrente di continuità, una coerenza che ha i caratteri di una vitalità imbrigliata, ma non soffocata. Ha insomma una coerenza, una continuità, uno stile, che ai tempi di Gozzano si sarebbe potuto identificare con il crepuscolarismo, presenta infatti quello stesso sostrato, ma non vuole essere crepuscolare, c’è anzi una ribellione, una lotta. 
Si intravede per Carlo De Bei una propria strada, una spinta portante di buon livello, una silloge che merita una riflessione attenta e puntuale.

 

 

Andrea Zanzotto

 

Un viaggio come luogo da raggiungere.

Una canzone notturna capace di lampi accecanti, improvvisi e fecondi di sana malinconia. Di tristezza nascosta, spiante dal muro della penombra, le zone felici del cuore. Ecco un’intuizione poetica spiazzante, di logica e d’amore, come un quadro che sul muro trova il vero disagio, che abbisogna del “non saper che fare” dell’essere appeso.

Eccolo il poeta, che con la lama della bellezza taglia la terra, emancipando la vita che ne fuoriesce per correre appresso a quel bisogno di dare e confondere, confondere e urlare, urlare e nascondere, nascondere e nascere, come un sasso caduto dal proprio dirupo deragliando nei sensi, dove la parola sa vivere.

La parola che s’appropria del suono e lì concima il suo seme di uomo e d’attore, di santo e peccatore e il repertorio fraseologico s’avventura nei luoghi dell’attimo e dell’immenso accumulando linfa dal cuore “….Che stupido specchio ha questo scalone di mezzo. Questa navata centrale che mi taglia la vita, non s’accorge che passo e sono sempre lo stesso, con gli stessi stivali, la stessa risata di scherno e disprezzo, la stessa faccia di vento e stupore, lo stesso identico amore da raccontare......”

Tanta è la voglia di rabbia e di sana crudezza nel recitare la vita non come una morte annunciata ma come un vissuto appena nato.

Un vissuto che, nella poesia di Carlo De Bei, è fonte di sete continua di una virilità disarmante che innesta le cose nelle cose e ne muove il profumo.

Musicista di spade e di fiori, di carta segreta da stanare dal cuore, come un caldo stupore affidato dai muscoli al vivo pensare.

Questa è la poetica di Carlo De Bei, lontana dagli stereotipi ma imbrigliata nella voglia di nuovo.

Un uomo che vive il suo intorno come un lento sapere portato dal mare. Dal suono dell’onda e delle dita sulle corde tese, dove la parola è campanile in cerca di volo di rondini e di “moeche” calde.

Suono che vive tra le rughe scolpite sulle facce dei vecchi pescatori appoggiati a un bicchiere, come nuvole in cerca di cielo, assecondando gli angeli nello spingere il cielo, urlando verso un nuovo destino.

Ed ecco la poesia diventar percorso e suggerire stoffa e colore, danza e silenzio, sorriso di gola e dolore dirimpettaio.

Eccolo il fiore di gelso ammantarsi di bianco e di rosso a sorprendere gli alberi antichi e possenti con un sapore mai assaggiato, un odore non ancora sentito. Con una musica sana che diventa mantello sul nudo sudore del corpo, proprio come un bacio appena baciato o come di un volo non ancora volato!

 

                                                                                                             Mango

 

 

 

 

 

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Data ultimo aggiornamento: Martedi' 7 settembre 2010