L’Impero asburgico era bello, ma non eterno. Pieno di contraddizioni. Era verde, un po’ grigio, color ciclamino, però aristocratico e popolare. Era transeunte il grande Impero, dolcissimo e variegato, con due teste d’aquila.
Era cosparso di mirtilli e fragole, di funghi e rododendri, di stelle alpine, di spini e rose. Lo punteggiavano lindi cimiteri da Trento a Leopoli, da Bregenz a Košice, da Spalato a Lienz, abbazie, chiese barocche, campanili, tabernacoli e crocifissi campestri; molti castelli; era ve
rde l’Impero colmo di prati e radure, di boschi e selve; di pini silvestri, di abeti scuri. Di mucche, cavalli e fattorie.
Le bande in costume suonavano all’alba nei giorni di festa, e la gente cantava per il suo Imperatore, il grandissimo Francesco Giuseppe. Con toni più sommessi per Carlo, l’ultimo Imperatore, Beato per volontà di Giovanni Paolo II.
L’esercito austriaco era brillante, ma poco guerriero. Non era come la portentosa macchina da guerra dell’armata prussiana, perché nel
le vene dell’Impero scorreva troppo sangue cattolico che è naturalmente portato alla misericordia, e perciò alla “sconfitta”.
Ferruccio Mazzariol ne delinea i giorni e la mite sostanza in maniera volutamente altalenante, non policentrica, semmai con una sua accattivante e fendente polifonia d’insieme. Lo scrittore veneto, ammaliato dalla creatura stupenda e precaria dell’Impero, ne rende la grandezza e la fragilità, l’incerto splendore e l’instabilità; i colori e il fascino; l’irripetibilità
, con una prosa spiritosa e frizzante che fluisce rapida e disinvolta come un torrente d’alta montagna. Storia e fantasia si compenetrano come in una ballata asburgica, e l’aquila bicipite, aurea e lucente, si trasmuta nelle aquile bianche, simili a colombe pure e pazienti, che l’Imperatore Francesco Giuseppe porge all’Altissimo.
Il romanzo, estroso e delicato, è un elogio sornione e affettuosamente critico al bellissimo Impero, all’Austria: luogo incomparabile del cuore e dello spirito, regno t
erreno, il meno alienante, che tende all’armonia pur nella sua mappatura insicura. Fortunato chi ha potuto viverci dentro.
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