«Il XX secolo è alla fine arrivato, con determinazione mai prima così consapevole nella storia del pensiero, alla dichiarazione della finitezza come nostra peculiarità.
Intesa non come condizione relativa ad un altro essere, ma in se stessa e basta. Non ente creato, dunque, ma ente puro e semplice che non mendica spiegazioni, e si limita ad esistere in se stesso, su se stesso e per se stesso, fino ad annullamento.
La questione non è soltanto filosofica: essa s’incarna continuamente
nel finire che costituisce l’esistenza impastata di carne e sangue, con tutto l’ornamento di speranze, ideali, emozioni e commenti che vanno poi a morire, e che continuiamo a chiamare vita. Nel finito, chiamato con più eleganza finitudine, ma sempre uguale a se stesso nella sua banalità ultima, si mangia e si beve, ci si sposa e ci si marita, si compra e si vende, si pianta e si costruisce, per dirlo con l’evangelista Luca, e poi si sparisce dal mondo.
[…] Ecco perché, a consolare questa nostr
a finitezza, noi annunciamo con franchezza e gioia l’evento che è Gesù Cristo. Uomo storico, dalla cui umanità possiamo però risalire all’essere non storico che è Dio, precisamente nella figura di Logos e Figlio di Dio, e Dio egli stesso. Risalita che ci salva, com’è intuibile.
Risalita che esige di ricostruire la filosofia come amore alla sapienza, che aggiunge alla intelligenza la umiltà».
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