"Stefano Dal Bianco è un uomo che si guarda vivere ad ogni istante ostinatamente, dolorosamente. E pensa a se stesso, col correttivo di affetti familiari nitidamente detti, come a una virtualità. Da ciò due aspetti salienti del suo libro: la forma di diario, o diario spezzato, e il continuo esprimersi al condizionale. Ma il "diario" è costruito con continue transizioni fra una prosa essenziale di micro-eventi (ma né "poetica" né sapienziale) e una poesia scandita liberamente: spesso all'interno dello stesso testo, con effetti quanto mai suggestivi di chiusura e distensione, inediti nella poesia d'oggi. E se l'introspezione è l'atteggiamento fondamentale del libro, quell'io però è collocato in ambienti precisi, sempre visti un po' di sbieco, che possono ridursi alla casa, a una stanza, a una finestra. In fin dei conti, domina il contrasto epocale fra città e "natura", che Dal Bianco si limita a porre senza dar risposte (come deve fare la poesia); e non è che la città non possa spremere minime gocce di felicità, anche se la libertà sta altrove. Dal Bianco non è un poeta "ideologico". Neppure si chiude alla speranza che - diceva Kafka - esiste in misura infinita ma non per noi. Ed ecco che le immagini piu ricorrenti sono quelle "contemplative" della luna e dell'azzurro, ora piene ora offuscate. Questo poeta cosi notevole non assomiglia a nessun suo confratello d'oggi, anzitutto perché non ha alcuna fretta. La parsimonia e la concentrazione non sono in lui che la faccia operativa della serietà della sua introspezione." Pier Vincenzo Mengaldo | |
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