Recensione di Francesco Demattè Se oggi, anno di grazia 2004, un qualsivoglia docente universitario introducesse l'usanza di fumare durante i corsi, sarebbe additato da tutti i beoti conformisti come un attentatore della salute pubblica, a causa dell'orwelliano clima salutistico, ultimo esito, in campo igienico-sanitario, del politicamente corretto. Ebbene, se non ci fosse stato l'innocuo piacere della sigaretta, vogliamo pensare che, molto probabilmente, la carica dirompente dei seminari su Hegel tenuti da quell'eccezionale personaggio che risponde al nome di Alexandre Kojève, non sarebbe stata quella che in realtà fu. Come è noto, infatti, per sei anni, dal 1933 e il 1939, il pensatore russo naturalizzato francese - il suo vero nome era Alexandr Koževnikov - tenne ogni lunedì alle 17.30 presso l'cole pratique des Hautes tudes di Parigi un seminario sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, che segnò in modo indelebile la cultura filosofica europea del Novecento. In effetti gli uditori non erano anonimi studenti alla ricerca, come spesso accade nelle nostre stanche e dequalificate università, di un pezzo di carta da convertire nell'agognato posto pubblico, ma, al contrario, alcuni dei più bei nomi della cultura francese dell'epoca: alle lezioni di Kojève, infatti, assistettero, fra gli altri, Georges Bataille, Jacques Lacan, Raymond Aron, Roger Caillois, Jean Hyppolite, Maurice Merleau-Ponty, Pierre Klossowski, Henry Corbin. Un bel numero di teste pensanti, non c'è che dire. Tutti ad ascoltare un Kojève che faceva del dialettico rapporto tra Servo e Signore il cuore della speculazione hegeliana. E che, mentre prendevano appunti o discutevano con il Maestro, fumavano. Ora, questo particolare del fumo, forse del tutto minore, ma che dà bene l'idea del fervido clima intellettuale che si respirava - è proprio il caso di dirlo _ - nell'auletta della parigina cole pratique des Hautes tudes settant'anni fa, lo traiamo dall'intervista che Kojève concesse nel famigerato 1968, poco prima di morire improvvisamente e inaspettatamente a sessantasei anni, a Gilles Lapouge e che fu pubblicata nello stesso anno dalla prestigiosa rivista La Quinzaine littéraire. Ora riappare nel volume kojeviano che di recente Adelphi ha dato alle stampe (Il silenzio della tirannide, pp. 267, euro 29.50, a cura e con una Nota di Antonio Gnoli) e che comprende, fra l'altro e in modo inatteso, lettere a Georges Bataille e a Kandinsky, zio di Kojève, accanto a un saggio sull'imperatore Giuliano e a un'analisi del rapporto fra Tempo e Concetto. Diciamo subito che il libro che contiene tutti questi contributi così diversi tra loro è uno dei testi più sorprendentemente interessanti che ci siano capitati fra le mani negli ultimi anni. Un'analisi appena sufficientemente approfondita di tutto il volume ci porterebbe via pagine e pagine del nostro Secolo: ci limitiamo, pertanto, a dire qualcosa su due dei saggi che reputiamo più utili a fini metapolitici e geopolitici. Il primo, Tirannide e saggezza, lavoro apparso nel 1950 con il titolo L'action politique des philosophes, altro non è che la risposta di Kojève a un testo pubblicato due anni prima del filosofo ebreo tedesco Leo Strauss (autore di cui ci siamo occupati sul Secolo dell'11 marzo scorso) e intitolato On Tiranny, il quale, a sua volta, è il commento a un dialogo non troppo noto di Senofonte, il Gerone. Tale dialogo consiste in un confronto tra Gerone il Vecchio e Simonide di Ceo, in cui quest'ultimo dà dei consigli al tiranno siracusano su come esercitare il potere. Il commento straussiano consente al pensatore francese di affrontare il vecchio e sfruttato tema del rapporto tra principe e filosofo - diremmo oggi tra politico e intellettuale - in un modo del tutto nuovo, profondamente influenzato dai concetti hegeliani di 'riconoscimento' e di 'fine della storia'. Concetti che sono intimamente intrecciati tra loro se, seguendo Hegel, Kojève ritiene in primo luogo che la molla segreta dell'agire di ogni uomo politico sia il desiderio di un suo 'riconoscimento' da parte dei governati, 'riconoscimento' che coincide con una accettazione della sua autorità. Il 'riconoscimento' si può configurare tuttavia come un processo pressoché illimitato, sia all'interno, che all'esterno dello Stato. Nel primo caso esso si tradurrà in una progressiva azione di governo finalizzata alla <<liberazione>> degli schiavi, alla <<emancipazione>> delle donne, alla riduzione dell'autorità della famiglia sui figli, alla diminuzione del numero dei criminali e degli <<squilibrati>> di ogni genere, all'elevazione al massimo del livello <<culturale>>, che dipende dal livello economico, di ogni classe sociale. Tutti questi soggetti sociali accettano e 'riconoscono' il capo politico per le sue decisioni omogeneizzatrici e livellatrici. Insomma il 'riconoscimento' come frutto ed esito di una politica tesa a eliminare, per quanto possibile e senza la violenza e il terrore, ogni opposizione interna, creando il consenso. Tale processo messo in moto dalla volontà di 'riconoscimento' porta a uno Stato socialmente e politicamente omogeneo. Come si può agevolmente notare Kojève ha utilizzato il 'riconoscimento' hegeliano per individuare il processo essenziale che ha portato alla costituzione dello Stato moderno, accentrato e livellatore, nato sulle ceneri della monarchia feudale dell'Età di Mezzo. Questo per quanto riguarda la politica interna dello Stato. Ancor più interessanti sono le considerazioni del grande interprete di Hegel per ciò che concerne la politica estera. Il desiderio di 'riconoscimento' porta infatti l'uomo politico a travalicare i confini del suo Stato, e a desiderare lo Stato universale: "il capo dello Stato sarà pienamente <<soddisfatto>> solo quando il suo Stato comprenderà l'Umanità intera". E' così qui prefigurato quello Stato mondiale che è al centro della riflessione di autori come Jnger e Schmitt, ben noti ai nostri lettori. Lo Stato universale e omogeneo (senza classi) è quindi il fine della Storia e, al contempo e soprattutto, la fine della Storia. Attenzione: da buon hegeliano Kojève dà un giudizio positivo sulla fuoriuscita dalla storia, su quell'eterno presente dell'umanità in cui la saggezza dovrebbe prendere il posto della filosofia e in cui gli individui dovrebbereo essere completamente soddisfatti di sé, anche se, probabilmente, nient'affatto felici: "ci stiamo dirigendo verso un sistema di vita russo-americano, antropomorfo ma animale, voglio dire senza negatività". Tesi, questa, combattuta dal suo interlocutore Leo Strauss, per il quale, per dirla con le parole di Antonio Gnoli, con la fine della storia "si sarebbe toccato il vertice della tragedia umana [_] il compiersi della moderna tirannide, la quale differiva dall'antica in quanto globale, tecnologica ed egualitaria". Anche il secondo saggio di cui vogliamo occuparci, L'Impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese e che risale all'estate del 1945, nasce all'interno di riflessioni che si mantengono all'interno delle sopracitate coordinate dello 'Stato universale omogeneo' e della 'fine della storia'. Sì, perché il progetto di un Impero latino di cui parla Kojève, formato da Francia, Spagna e Italia con le rispettive colonie, pur nella contrapposizione all'Impero slavosovietico e a quello anglosassone di stampo liberalcapitalistica, si pone nella prospettiva della fine della storia: "l'èra in cui l'umanità presa nel suo insieme sarà una realtà politica si situa ancora in un avvenire lontano. Il periodo delle realtà politiche nazionali è passato. Questo è il momento degli imperi, e cioè delle unità politiche transnazionali, ma formate da nazioni apparentate". Se da una parte, quindi, Kojève intende molto lucidamente, già all'indomani dell'ultimo conflitto mondiale, che lo Stato nazionale non ha più un ruolo nella grande politica internazionale, egli ritiene tuttavia che l'Impero sia solo una tappa di avvicinamento allo Stato globale. Rimane, pertanto, lontano da una visione dei grandi spazi organizzati politicamente sulla scia di autori quali Schmitt e Haushofer. Ciò nondimeno, accanto a notazioni che soffrono l'usura degli anni - a cominciare dall'idea stessa di una unione imperiale fra le nazioni latine, 'superata' da un'Europa unita fondata sul nocciolo duro franco-tedesco, ma ancora lontana dall'essere una potenza imperiale - compaiono intuizioni veramente sorprendenti come, per esempio, quelle relative al rapporto tra Islam ed Europa. Scrive Kojève: "[_] non è escluso che [all'interno dell'Impero latino] un giorno possa essere risolto il problema musulmano [_]. Dal tempo delle crociate, infatti, l'islam arabo e il cattolicesimo latino sono uniti in un'opposizione da molti punti di vista sintetica [_]. E nulla impedisce che nel seno di un vero impero questa sintesi di opposti possa essere liberata dalle sue contraddizioni interne, irriducibili solo finché concernono interessi puramente nazionali". E così conclude: "Un'intesa tra la latinità e l'islam renderebbe singolarmente precaria la presenza di altre forze imperiali nel bacino mediterraneo". Tesi questa che, se riportata al giorno d'oggi, ci aiuta forse a comprendere le ragioni per cui alcune forze imperiali extraeuropee sembrano fare di tutto affinché fra la civiltà europea e quella islamica non si realizzi un accordo sulla base di un reciproco rispetto. Fomentando invece in tutti i modi odii e risentimenti. Chi ha orecchi per intendere, intenda _ Francesco Demattè Secolo d'Italia 26 maggio 2004 | |
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Recensione di Mercoledi' 26 maggio 2004 a cura di: Francesco Dematte' |
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