Fatti e valori rimessi in discussione Chi non è stato coinvolto, in questi giorni, in qualche appassionata discussione pro o contro l'intervento americano in Irak? O, a partire dall'attacco dell'11 settembre, chi può dire di essersi trattenuto dal dire la sua, magari a rischio di incrinare irrimediabilmente amicizie consolidate su come il mondo è cambiato da quel giorno, sulle misure pi- adeguate per combattere il terrorismo, sullo scontro tra civiltà, sul fondamentalismo, il ruolo dell'America nella storia, l'esistenza o meno di complotti, cospirazioni, interessi nascosti, ecc. ecc.? Ebbene, nel corso di queste discussioni, ci sarà sicuramente capitato di dire, o di sentirci dire: "Questo è un fatto". Oppure, al contrario: "Questo è un giudizio di valore". Nel primo caso avremo fatto appello a una prova inconfutabile, definitiva, oggettiva, a favore della nostra argomentazione. Nel secondo, invece, avremo manifestato la sensazione di trovarci di fronte a un giudizio, magari legittimo, ma certamente soggettivo. Contro questa idea - che vi siano da un lato i fatti, che appartengono al regno dall'oggettività, e dall'altro i valori, dove domina la soggettività, e che esista una netta distinzione tra i due versanti - si è concentrata la riflessione di Hilary Putnam negli ultimi decenni. A partire da "Ragione, verità e storia", del 1983 (Il Saggiatore), cui sono seguiti via via La sfida del realismo (Garzanti), Pragmatismo: una questione aperta (Laterza), Realismo dal volto umano (il Mulino), Rinnovare la filosofia (Garzanti), l'oggi settantasettenne professore emerito di Harvard S venuto affinando una visione filosofica che contrasta con il "fisicalismo" da lui stesso sostenuto nei decenni precedenti sulla scia di maestri del Positivismo Logico come Carnap e Reichenbach e del suo collega ad Harvard O. W. Quine, e che si richiama invece alla tradizione dei pragmatismo americano, quello delle origini, di Peirce, ma soprattutto di William James e di John Dewey. Al Realismo Metafisico del Putnam vecchia maniera si è così sostituito un realismo con la "r" minuscola, che tiene conto dei modi mutevoli in cui descriviamo il mondo esterno, chiamato volta a volta "realismo interno", "realismo dal volto umano", "realismo pragmatico". ... Putnam, avvicinandosi alle posizione di John McDowell e riprendendo alcune intuizioni del John Austin di Sense and Sensibilia (1962), parla di "realismo diretto" o "realismo naturale" e propone l'idea di una "percezione diretta" che ci liberi dalla immagine - dominante nelle scienze cognitive contemporanee - che interpreta i dati sensoriali come un'interfaccia cognitiva tra mondo esterno e mente umana: che ci liberi, in altre parole, da una delle "dicotome" che caratterizzano il Realismo Metafisico, in questo caso quella tra mente e mondo. Ma tra tali dicotomie, quella tra fatti e valori è forse la più generale di tutte, la più persistente. Ad essa Putnam dedica il suo ultimo libro, The Collapse of Fact/Value Dichotomy. Secondo Quine la cultura che noi ereditiamo è una stoffa grigia. "ma di fatti e grigia di convenzioni", ma nessuno è mai riuscito ad estrarre né un filo completamente bianco né un filo completamente nero. Putnam aggiunge nell'intreccio i fili rossi dei valori, con un'immagine che vale anche per le scienze della natura, dove non solo i fatti sono "carichi di teoria", ma dove è impossibile non fare riferimento a una serie di valori, come "coerenza", "semplicità", ma anche "bellezza" (che fu determinante, ad esempio, per il successo della teoria della relatività e della scoperta della struttura a doppia elica del Dna). Neppure nella scienza, della quale Putnam propone una versione "fallibilista", si può far riferimento a fatti incontrovertibili validi una volta per sempre, che corrispondono a una fantomatica immagine vera del mondo. Ma non per questo diremo che le asserzioni scientifiche sono prive di oggettività. Si tratta semplicemente di verità costantemente rivedibili, che posso essere messe costantemente in discussione. Ma perché questo non dovrebbe valere anche per la morale e per le scienze sociali? Affermare che vi è un mondo di fatti - quello delle verità scientifiche - in cui si può parlare di oggettività e un mondo di valori dove non è possibile alcuna oggettività significa negarci la possibilità di assegnare uno statuto cognitivo non solo alle nostre affermazioni morale (che invece hanno quasi sempre una componente descrittiva), ma anche buona parte delle nozioni storiche, sociologiche e psicologiche. In realtà in tutti questi campi vale la stessa idea "fallibilista": attraverso la discussione potremo testare la plausibilità o meno delle nostre affermazioni, assegnando loro un certo grado di oggettività. Insomma anche sui "valori" si discute. Ed è questa la lezione che emerge dall'accurata analisi svolta da Putnam sulle idee di Amartya K. Sen, che proprio in questo spirito, con la sua teoria dei "funzionamenti, e delle "capacità", ha cercato di riformare la welfare economics e la teoria della scelta razionale, anch'esse imbrigliate nel paradigma positivista. Chi è imprigionato nella dicotomia fatti/valori non fa che bloccare una discussione razionale che invece è altamente auspicabile. Quando, nelle prossime settimane, continueremo a infervorarci su questioni capitali come guerra, pace, democrazia, tolleranza, pluralismo, forse faremo bene a ricordare questo suggerimento di Putnam, per provare a distinguere tra le ipotesi più stravaganti e strampalate e le posizioni sensate, basate su analisi approfondite e giudizi ponderati. Ricordando soprattutto che, anche tra i valori, certamente ve ne sono alcuni migliori di altri. Recensione all'edizione inglese di Armando Massarenti pubblicata da "Il Sole 24 Ore" | |
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